Disciplina regionale concorrente in materia di governo del territorio e principio perequativo nella pianificazione urbanistica comunale
di Paolo Urbani
Ordinario di Diritto Amministrativo
Università “Luiss Guido Carli” di Roma

Premessa generale

E’ noto che l’ultimo intervento legislativo organico nella disciplina della materia urbanistica risalga alla L. 10/77 – ovvero quasi trentacinque anni fa – e che l’obiettivo fosse quello di introdurre nel sistema della pianificazione urbanistica elementi di “solidarietà” da parte degli interessi privati premiati dalla edificabilità dei propri immobili attraverso la corresponsione degli oneri di costruzione.

S’introduceva così per la prima volta, il principio fondamentale dell’onerosità delle trasformazioni in funzione della “cattura di valore” da parte del potere pubblico nei confronti della proprietà fondiaria ed edilizia. Quel principio fondamentale si affianca ad altri principi della materia desumibili dalla legislazione vigente e più volte declinati dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale quali quello della pianificazione, della garanzia degli standards urbanistici ed edilizi, della salvaguardia in assenza della pianificazione, delle sanzioni penali ed amministrative nel caso di illeciti urbanistici.

La materia urbanistica facente parte del più ampio settore del “governo del territorio” secondo il nuovo titolo V Cost. rientra nella disciplina legislativa concorrente secondo la quale spetta al legislatore statale fissare i principi fondamentali della materia rintracciabili nella disciplina vigente ma con potestà di individuarne anche di nuovi, cui debbono attenersi le regioni nell’adattare la legislazione regionale alle esigenze e caratteristiche dei propri territori. La legge di principi in materia di governo del territorio cui dovrebbe spettare di disciplinare i contenuti delle materie concorrenti rientranti nel concetto di governo del territorio (urbanistica, controllo dell’attività edilizia, normativa tecnica in materia edilizia, e per certi aspetti anche la difesa del suolo e i lavori pubblici) manca ed i progetti di legge in materia ripresentati anche in questa legislatura non solo sono assolutamente inadeguati nei loro contenuti ma toccano solo l’aspetto della pianificazione eludendo tra l’altro anche i profili relativi alla disciplina della proprietà nei suoi molteplici profili (fiscali, dei diritti edificatori, ad es.) che ben potrebbero essere ricompresi in tale legge di riforma anche se afferenti alle competenze legislative esclusive statali.

In questo scenario il tema che mi è stato chiesto di trattare è quello delle innovazioni apportate dal legislatore regionale, anche in mancanza di una legge di principi, alle tecniche di conformazione dei suoli proprie del piano regolatore generale comunale attraverso modalità di esercizio del potere amministrativo che si muovono nell’ottica del cosiddetto sistema perequativo/compensativo.

E la domanda cui si cercherà di rispondere è se esista già un principio perequativo desumibile dalla legislazione vigente cui le regioni abbiano fatto riferimento o ci si trovi invece di fronte a profili di incostituzionalità della disciplina regionale lì dove si siano introdotte nuove tecniche perequative nel piano regolatore anche sotto il profilo della riserva di legge statale in materia di disciplina della proprietà.

Dirò subito, come vedremo, che tali profili non hanno sostanziale rilievo ma, per poter meglio argomentare, è necessario ripercorrere l’itinerario politico giuridico e amministrativo che ha portato non solo il legislatore regionale ma anche molti comuni, in regioni nelle quali non vige alcuna disciplina regionale in materia, a modificare profondamente il processo di formazione della volontà politica nel determinare l’assetto pianificatorio dei territori comunali.

Le ragioni della perequazione

La fortuna recente del sistema perequativo, in ossequio al principio della giustizia redistributiva applicato alla pianificazione urbanistica, è da attribuire a due fattori di particolare rilievo che hanno assunto nel tempo grande rilevanza.

Il primo è costituito dall’insoddisfacente tecnica dello zoning che seppure ha costituito il principio di razionalizzazione della ordinata distribuzione degli interessi pubblici e privati sul territorio – ai sensi dell’art. 7 della legge urbanistica fondamentale del 1942 e del D.m. 1444 del 1968 – non risponde più, in molti casi, alle esigenze dello sviluppo e della riqualificazione delle città che richiedono, in molti casi, l’uso integrato della plurifunzionalità delle attività di trasformazione dei suoli. La rigidità di tale tecnica si è rivelata da tempo controproducente rispetto alla soddisfazione delle sopravvenienti e continue esigenze dello sviluppo e del rinnovo urbano.

Il secondo è legato alla disciplina risalente dei vincoli urbanistici necessari a garantire gli standards urbanistici destinati a dotare le aree urbane in trasformazione di beni e servizi collettivi. Disciplina come è noto, unica nei paesi almeno europei per i suoi effetti reiterativi di durata, tendente a discriminare tra proprietari il godimento della proprietà, in presenza di beni immobili determinati aventi potenzialmente identica capacità edificatoria, attraverso la previsione espropriativa per pubblica utilità delle aree incise dai vincoli.

Con la sentenza della Corte cost. 348/2007, in ossequio alla giurisprudenza della Cedu, l’indennizzo espropriativo va ora rapportato al valore venale del bene. La legge finanziaria per il 2008 (L. 244/07) art. 2 comma 89-90 ha colmato il vuoto legislativo determinato dalla decisione stabilendo, tra l’altro, che l’indennità di espropriazione di un’area edificabile è commisurata al valore venale del bene, (mentre quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale l’indennità è ridotta del 25%). Questo rende difficilmente ancora percorribile – data la crisi fiscale dei comuni – la via della pianificazione attraverso i vincoli urbanistici il cui indennizzo espropriativo si rivela ormai proibitivo.

L’adozione dei sistemi perequativi come criterio di giustizia redistributiva

A fronte di questi due accadimenti il ricorso alla perequazione urbanistica, all’interno dei piani regolatori, non sembra più un’opzione ma diviene atto necessitato derivante dalla duplice esigenza di assicurare contemporaneamente all’edificazione, nelle aree di trasformazione o riqualificazione, adeguate dotazioni territoriali e di prevedere al loro interno la mixitè delle funzioni.

La perequazione urbanistica si è affermata attraverso una corrente di pensiero mutuata dall’esperienza di altri paesi (Stati Uniti, Spagna, Portogallo) che si è mossa sulla base di un obiettivo: quello di introdurre nel piano urbanistico il principio della perequazione che mira a redistribuire tra tutti i proprietari delle aree oggetto di trasformazione sia i vantaggi dell’edificazione sia gli oneri pubblici delle urbanizzazioni. [nota 1]

Corollario di questa impostazione è superare la zonizzazione che di per sé è discriminatoria. In breve, se la zonizzazione parcellizza e quindi settorializza tra destinazioni d’uso e vocazioni edificatorie, la perequazione dovrebbe rendere indifferenti i proprietari rispetto alle scelte di pianificazione pur necessarie poiché comunque essi ricavano dalle aree di proprietà un quantum di vantaggi edificatori.

Se mi è permesso usare un’immagine, dalle camere stagne della zonizzazione si passa a un sistema perequativo di vasi comunicanti che permette oltre al riconoscimento dell’edificabilità virtuale anche la circolazione di tale edificabilità su tutto il territorio trasformabile [nota 2]. Non più proprietari premiati o sconfitti dal piano [nota 3] – si afferma – ma un sistema che tende alla ricomposizione effettiva degli interessi tra proprietari e all’abbattimento delle rendite di posizione o marginali. Qual è il vantaggio per la città pubblica? Mettere in moto un meccanismo per cui la trasformazione urbana è ancorata necessariamente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione e alla cessione delle aree relative man mano che gli ambiti (non più le zone) di perequazione vanno in attuazione.

Tuttavia, se questa è la filosofia generale la sua applicazione sul territorio non è così scontata.

Perequare – rendere uguali, pareggiare – ovvero rendere indifferenti i proprietari rispetto alle scelte di pianificazione? Che significa indifferenti? Significa che le scelte di pianificazione non discriminano tra proprietari? Sono cioè le proprietà trattate tutte nello stesso modo? E’ proprio vero che si possa raggiungere una situazione di totale eguaglianza? E’ evidente che ciò è impossibile per vari motivi che attengono a due profili essenziali: al fatto che la situazione territoriale delle varie proprietà è diversa sia per localizzazione, urbanizzazione ecc. [nota 4] sia perché il potere di pianificazione del comune comporta necessariamente una differenziazione del regime edificatorio rispetto alla soddisfazione dei numerosi interessi in campo: residenziali, produttivi terziari, agricoli ecc.

D’altronde, è bene ricordare che è costante nella giurisprudenza amministrativa il richiamo al fatto che una certa dose di «diseguaglianza» è connaturale alla pianificazione urbanistica (ex multis Cons. Stato, sez. IV, 14 aprile 1981, n. 367) ché altrimenti verrebbe meno la stessa possibilità di differenziare, attraverso tale tecnica, le forme di utilizzazione, di trasformazione e di tutela del territorio.

Quindi un primo punto: la perequazione allevia o riduce le sperequazioni tra le vocazioni edificatorie delle diverse proprietà ma non le annulla. D’altronde anche nella perequazione delle retribuzioni salariali l’obiettivo è mitigare le differenze non di annullarle.

La perequazione è un “mezzo” e non un fine diretto a correggere due caratteristiche della pianificazione tradizionale: da un lato, la sperequazione “relativa” derivante dalla zonizzazione per cui beni immobili pur destinati allo sviluppo edilizio e versanti nelle medesime condizioni in quanto a ubicazione, morfologia ed estensione sono oggetto di differenziazione nei diritti edificatori riconosciuti; dall’altro, la sperequazione “assoluta” derivante dalla descritta vicenda dei vincoli urbanistici tendente a destinare le stesse aree a servizi pubblici. Dunque, quello della distribuzione del plusvalore fondiario legato alle possibilità di trasformazione urbanistica derivanti dalle scelte pianificatorie costituisce uno dei nodi principali del governo delle trasformazioni urbane che, una volta che si acceda a una prospettiva perequativa, si traduce nell’obiettivo di conseguire l’equità «catturando» tale plusvalore e redistribuendolo alla collettività per riequilibrare il costo sociale della trasformazione stessa.

Con riferimento al nodo principale dell’equità di valori fondiari discendenti dalla pianificazione, nelle elaborazioni concettuali dei diversi approcci di perequazione urbanistica, si sono prospettate differenti impostazioni risolutive.

La prima consiste in quella serie di differenti misure che gli interpreti identificano come «perequazione di valori». In sintesi, l’idea-base ruota intorno a una più o meno generalizzata monetizzazione dei diritti edificatori, unita a un gioco di trasferimenti (di natura finanziaria o parafiscale) compensativi delle disparità di valore nelle rendite fondiarie derivanti dalla pianificazione [nota 5].

L’altro approccio è quello che comunemente viene identificato come di “perequazione urbanistica” o di “volumi”, con ciò intendendosi porre in primo piano l’esigenza di redistribuire reali quantità urbanistiche e a priori, ossia al momento stesso della formazione della scelta di governo territoriale, piuttosto che tentare di rimediare a posteriori con compensazioni monetarie di incerta applicazione.

Il principio della perequazione – come si ripete talvolta – non è quello di creare l’indifferenza tra proprietari rispetto alle scelte di pianificazione che non è possibile, ma quello di riconoscere ai proprietari un valore alle proprietà commisurato alla tipologia, alla localizzazione, all’urbanizzazione, alla classificazione delle aree rispetto al contesto territoriale nel quale si collocano, cosa ben diversa dal criterio della zonizzazione. E’, in breve, un principio che riflette il «merito» delle aree, che non può prescindere dalla loro natura. Se da un lato quindi le teorie perequative mirano positivamente ad abbattere o a ridurre le posizioni di rendita almeno per la città futura, e a interpretare, nella chiave pianificatoria, il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, il vero obiettivo della perequazione è quello di superare la frammentazione della copertura degli oneri urbanizzativi da parte dei privati e realizzare un sistema generalizzato che crei una equazione del tipo: trasformazione edilizia = città pubblica, lì dove le trasformazioni non solo concorrono alla copertura degli oneri urbanizzativi ma tendono a coprirli interamente.

E’ evidente che questo secondo obiettivo, raggiungibile solo nel caso della perequazione generalizzata (cfr. infra), comporta un’analisi molto attenta del rapporto tra volumetrie concesse e contributi a carico dei privati.

Esso è complicato perché nel meccanismo perequativo, la cui attuazione ricalca in pieno quella originaria delle convenzioni urbanistiche dei primi anni del Novecento, il privato non solo si addossa la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, ma cede anche le aree ove si localizzano tali opere. Questo comporta una modifica profonda del meccanismo del piano regolatore che non può più limitarsi al piano disegnato ma lega strettamente le sue previsioni alla sua effettiva attuazione. Si tratta di una delle più complesse operazioni legate al calcolo del fabbisogno sia delle opere pubbliche sia delle aree necessarie in modo che man mano che il piano si attua non si verifichino carenze nel calcolo del carico urbanistico che i privati devono sostenere, in rapporto all’edificabilità assegnata.

Questo è uno dei motivi per cui il Prg di nuovo conio – ovvero quello che in alcune regioni si divide in due procedimenti distinti strutturale e operativo – è corredato dal cosiddetto “piano dei servizi” che svolge un’attività ricognitiva, sui territori delle trasformazioni, delle opere pubbliche necessarie senza tuttavia localizzare, attraverso l’apposizione dei vincoli urbanistici, le aree destinate alla garanzia degli standards urbanistici sulle quali occorrerà realizzare le opere di urbanizzazione. La quota di aree da cedere e la quantità di opere di urbanizzazione da realizzare saranno oggetto di negozi, ovvero di piani attuativi convenzionati.

Man mano che il Prg viene attuato per ambiti di perequazione dovrebbe quindi aversi una corrispondenza tra volumetrie assentibili e opere pubbliche da realizzare comprensive della cessione delle aree relative. Ma questo disegno ordinatorio, se fosse ancorato al calcolo degli oneri di urbanizzazione della legge n. 10/1977, sarebbe destinato a fallire per le insufficienze di cui abbiamo già detto.

L’introduzione dei modelli perequativi in funzione sociale: il comparto edificatorio e le sue varianti

Detto questo, occorre affrontare partitamente le teorie e le esperienze perequative in atto in molti comuni grazie anche al favor previsto per tale istituto da alcune leggi regionali. Tenendo conto, tuttavia, che molte di queste esperienze costituiscono le “avanguardie” e non la generalità e che quindi quando parliamo di perequazione – a parte la differenziazione dei modelli – ci riferiamo al massimo a poche regioni ed a circa 500/1000 comuni sugli 8098 esistenti.

Proveremo quindi ad esaminare le varie questioni partendo dai prodromi o meglio dall’archetipo della perequazione urbanistica già prevista dall’art. 23 della legge urbanistica del 1942.

Il modello classico che richiama l’istituto del “comparto” é quello limitato a particolari zone nelle quali i diritti oggetto di distribuzione tra i proprietari coincidono con l’edificabilità attribuita dal piano. La tecnica urbanistica comporta l’assegnazione di un unico indice territoriale (al lordo quindi delle aree per servizi) che riguarda l’intero comparto che si spalma sulle singole proprietà in rapporto alla loro estensione, ma tale edificabilità è solo virtuale poiché il meccanismo attuativo può prevedere che i proprietari sulla base delle previsioni del comparto – non possano sempre spendere le volumetrie riconosciute nelle proprie aree, dovendo trasferirle in altre di proprietà di altri compartisti. In questo caso è bene sottolinearlo i valori oggetto di perequazione sono quelli che il piano attribuisce agli ambiti territoriali interessati. Si può parlare qui di perequazione parziale o a posteriori. In questo caso i diritti maturati all’interno di ciascun comparto non possono essere trasferiti all’esterno.

La scarsa applicazione in passato del comparto – pur previsto da più di 60 anni nel nostro ordinamento urbanistico – può essere individuata nella politica di espansione delle aree urbane degli anni ’60 ove l’istituto della lottizzazione convenzionata si è mostrato di più duttile applicazione; nella previsione restrittiva che escludeva dall’intervento edilizio le opere di urbanizzazione; nella scarsa propensione dei proprietari di “staccarsi” dal possesso del bene fondiario in funzione della valorizzazione della proprietà, ed infine nella rigidità estrema delle destinazioni d’uso ammesse. Il diverso approccio e la sua crescente applicazione ha prevalso nella totalità delle esperienze di perequazione urbanistica, sia per effetto della giurisprudenza, che ha ammesso la possibilità, prima esclusa, di ricomprendervi anche le aree e gli spazi pubblici per servizi (Cons. Stato, sez. V, 7 dicembre 1979, n. 772), sia per opera della legislazione regionale ma, soprattutto, ciò che ha fatto decollare l’istituto perequativo in discorso è divenuta l’esigenza sempre più impellente – e conveniente per la proprietà – della riqualificazione dell’edificato nelle aree consolidate delle città e della necessaria dotazione di opere e servizi, anche “rari”, di cui quelle aree sono fortemente carenti, nonché il superamento della rigidità funzionale delle zone in funzione di quella che gli urbanisti chiamano mixitè.

L’utilità del ricorso ad una pianificazione per comparti si riscontra, infatti, soprattutto nei casi di aree già in parte edificate (di norma zone B) il cui completamento si coniuga con l’esigenza di migliorarne i servizi collettivi e di riqualificare gli immobili esistenti anche attraverso demolizione e ricostruzione, nonché quello più importante di “assorbire o rimuovere” i vincoli urbanistici preesistenti in quelle aree a garanzia degli standards. In tal caso si recupera un’equa distribuzione tra tutti i compartisti degli oneri e dei benefici superando la discriminazione tra proprietari e dotando effettivamente il comparto dei beni di uso collettivo.

Nel rileggere oggi le disposizioni dell’art. 23 ci si rende conto che le mutate condizioni di applicazione dell’istituto rendono ormai residuale l’originaria disciplina che si basava essenzialmente sull’autoritarietà dell’azione amministrativa derivante dal rischio dell’inerzia dei proprietari. La norma infatti prevede non solo che sono sufficienti il 2/3 dei proprietari, sulla base degli indici catastali, a costituire il consorzio, ma anche che i resistenti possano essere espropriati dal comune a favore dei compartisti consenzienti o che addirittura in caso di totale inerzia, l’amministrazione proceda all’esproprio totale delle aree redigendo un piano particolareggiato d’iniziativa pubblica. Oggi non è più così poiché il comparto costituisce per i proprietari l’occasione per valorizzare la proprietà che si giova anche di una certa libertà di progetto sotto il profilo della multidimensionalità delle destinazioni d’uso, il che comporta aumento di valore dei beni immobili ristrutturati o resi edificabili, specie considerando che tali interventi si situano in aree centrali della città. Inoltre, l’urbanistica per comparti sembra decisamente agevolare le imprese di costruzione che spesso acquisiscono dai proprietari, che possono avere difficoltà ad assumere il ruolo di costruttori, interi immobili assicurandosi direttamente la maggioranza delle proprietà consortili, se non la totalità delle quote proprietarie. In tal modo si ottiene per di più una semplificazione del rapporto tra proprietà e comuni, riducendosi questa ad un diretto rapporto tra impresa e amministrazione comunale.

A tale proposito, ed in rapporto alle specifiche situazioni territoriali da ricomprendere nei comparti di trasformazione, in molti casi l’amministrazione rende flessibili, in sede di redazione del Prg, le delimitazioni dei comparti stessi, prevedendo che questi siano definiti attraverso un processo graduale di adesione dei diversi proprietari per facilitare il miglior assetto degli interessi in campo, pubblici e privati. S’instaura qui un rapporto “dinamico” che presuppone la possibilità di modificare il contenuto della proposta di pianificazione perequata, prevedendosi accordi a geometria variabile [nota 6] che meglio favoriscano l’attuazione integrata del comparto. Ecco perché in molti casi, i teorici di questo modello perequativo, sulla base anche delle esperienze straniere, esaltano la figura del developer ovvero dello “sviluppatore” che ha il compito di mettere a punto il progetto urbanistico ed edilizio svolgendo la funzione di raccordo tra i diversi interessi. Quale ruolo migliore può essere svolto se non dalle imprese costruttrici – assistite a volte anche dagli istituti di credito – meglio di altri soggetti in grado di valutare i costi delle opere private, la loro destinazione d’uso in funzione della domanda, e regolare i rapporti di scambio tra opere pubbliche ed edificabilità privata? Non di mera attuazione del comparto allora secondo l’indice territoriale astrattamente individuato dal piano, ma di programma integrato d’intervento di cui l’elemento perequativo è il contenuto essenziale da parametrare sugli elementi dello scambio. In questi casi, balza evidente che tendono a divenire recessivi i rapporti tra edificabilità delle aree ed oneri concessori, potendosi prefigurare modalità extra oneri od oneri “esorbitanti” che nulla hanno più a che fare con la base impositiva dei tradizionali oneri concessori della L. 10/77. Il che ripropone – come vedremo – la questione dei limiti che incontra l’amministrazione nell’esercizio dei suoi poteri di pianificazione urbanistica in rapporto principio di legalità dell’azione amministrativa.

Più recentemente, si è affermata la tendenza per la quale i diritti edificatori previsti in un comparto possano liberamente transitare in altri comparti anche non contigui, sempre però che il piano urbanistico ne preveda la traslazione assegnando una maggiore edificabilità alle aree ospitanti. Si tratta, come vedremo esaminando i profili più strettamente giuridici, di introdurre meccanismi convenzionali più complessi che prevedano la disciplina dei rapporti tra il comune ed i diversi proprietari delle aree – tradens ed accipiens – cosicchè l’attuazione integrale degl’interventi resta ancorata al consenso complessivo degli attori in campo. Questa variante al modello originario non si giustificherebbe se non vi fosse un vantaggio per l’amministrazione misurabile in termini di politica urbanistica a favore della collettività rappresentata.

Il modello, infatti, prevede che anche l’edificabilità attribuita ad aree esterne al comparto (anche non contigue) possa concorrere alla trasformazione del comparto. In questo caso – dietro cessione gratuita delle aree al comune – l’edificabilità convenzionale attribuita alle aree esterne di cui si richiede la conservazione viene spostata all’interno del comparto, determinando una capacità edificatoria aggiuntiva mentre la perequazione degli oneri viene ripartita tra tutte le aree esterne o interne al comparto. In sostanza, l’obiettivo è che tali comparti ospitino volumi edificatori transitati da aree esterne al comparto, cedute gratuitamente al comune in cambio del riconoscimento della volumetria da traslare nei comparti di atterraggio. Il caso di scuola più volte richiamato è quello del Prg di Ravenna [nota 7] mediante il quale il comune ha acquisito senza oneri un certo quantitativo di aree finalizzate alla costituzione di un “green belt ” ovvero di una cintura verde attorno alla città, oltre alla possibilità di riqualificare la darsena. Si tratta della prima variante significativa al modello dell’art. 23 della legge urbanistica fondamentale, che costituisce il primo approccio importante a favore del declino della zonizzazione tradizionale del Prg, poiché l’ampliamento del numero dei comparti – nonché la possibilità che i diritti edificatori assegnati possano transitare da un comparto all’altro – precede di poco le tecniche perequative generalizzate e a priori che fanno strame della zonizzazione tradizionale.

Va comunque qui sottolineato un punto è cioè che la perequazione per comparti – identificati preventivamente dal piano urbanistico – si giova ricorrendo a formule organizzatorie variamente configurate in dottrina e in giurisprudenza (consorzio tra privati, comunione tra proprietari ecc.) che hanno la precisa funzione di garantire la realizzazione unitaria degli interventi sul territorio del comparto. Il modello attuativo prevede, quindi, il rinvio all’autonomia dei privati che contrattualmente determinano il miglior assetto del territorio perequato, compatibile con le scelte del piano urbanistico generale, in base a quella che già un giurista del ‘900 Salvatore Pugliatti chiamava “urbanistica relazionale”, la cui attuazione è cioè basata sulle “relazioni contrattuali” che s’instaurano tra i destinatari delle prescrizioni urbanistiche ed ove l’amministrazione comunale svolge un ruolo di “regista” rispetto alla realizzazione delle scelte pianificatorie da parte degli attori privati.

Si pensi ai meccanismi di cessione volontaria delle aree, alla copertura finanziaria degli interventi di realizzazione delle opere di urbanizzazione, alla localizzazione dei diritti edificatori in alcune aree e non in altre, alla necessità che le previsioni urbanistiche del comparto si leghino armonicamente con il contesto urbano nel quale è collocato. In sostanza, gli aspetti organizzativi ed i vincoli contrattuali tra le parti private, ovvero i profili reali, sono assolutamente inscindibili tenendo anche conto che l’amministrazione si riserva sempre attraverso il rilascio delle singole concessioni edilizie (oggi permessi di costruire) il controllo preventivo della legittimità delle trasformazioni in rapporto al disegno ordinatorio del comparto [nota 8].

Le compensazioni in caso di vincoli urbanistici espropriativi

Il modello perequativo descritto – ma soprattutto le sue varianti – costituisce uno degli strumenti più utilizzati per disegnare la città “futura” nella quale – come abbiamo visto – i meccanismi perequativi consentono di dotare i comparti di servizi ed opere di urbanizzazione senza ricorrere al vincolo urbanistico a garanzia degli standards.

Più recentemente si invece posto il problema di trovare un rimedio agli errori commessi nelle scelte di pianificazione precedenti nelle quali si è fatto largo uso della categoria del vincolo urbanistico, il cui superamento attraverso l’esproprio delle aree da parte del comune è divenuto assai difficile, se non impossibile, per la previsione di un indennizzo al valore venale del bene, cui le amministrazioni locali non possono provvedere per mancanza di risorse finanziarie.

Si è prospettata così l’ipotesi di trovare soluzioni alternative all’indennizzo espropriativo monetario, considerando anche che la reiterazione dei vincoli urbanistici non può più superare il quinquennio, dovendosi anche prevedere un indennizzo per la perdita di chance per il periodo in cui vige il vincolo [nota 9], alla scadenza del quale la Corte costituzionale ne ha vietato l’ulteriore reiterazione. In questi casi, nelle zone ove i vincoli decadrebbero, prevalentemente nelle zone B di completamento ma non solo, verrebbe alterato quel rapporto tra aree già edificate ed aree per servizi, sbilanciando così le previsioni di piano che si basano proprio sull’equilibrio tra vuoti e pieni.

La stessa Corte (n. 179/99) – con una decisione assai innovativa – ha riconosciuto la legittimità della compensazione urbanistica in alternativa all’indennizzo espropriativo monetario, previa cessione del bene, attraverso l’attribuzione di quote di edificabilità da spendere in altre aree o la permuta con altre aree. I giudici hanno riconosciuto, cioè, la legittimità d’istituti compensativi che non penalizzino i soggetti interessati dalle scelte urbanistiche che incidono su beni determinati, riconoscendo la conformità all’ordinamento di moduli di compensazione anche a prescindere da specifiche previsioni normative.

Si tratta, cioè, di rimedi che potremmo definire “compensativi” e che mirano a ripagare il proprietario inciso dal vincolo espropriativo del “sacrificio” da sopportare e che comporta la possibilità di un “equo ristoro” in termini di quote di edificabilità o di recupero di cubature in altre aree oppure della possibilità di permuta con altre aree di proprietà comunale o del soggetto espropriando ove trasferire i diritti edificatori riconosciuti, sempre che il piano ne preveda la localizzazione.

L’unico precedente legislativo era quello previsto dalla L. 47/85 art. 30 riguardo ad un caso specifico riguardante i piani di recupero urbanistico in presenza di aree lottizzate abusivamente alla data del 1 ottobre 1983 [nota 10]. Ancora una volta, la giurisprudenza costituzionale ha così colmato un vuoto legislativo, tanto più grave considerando la crisi finanziaria dei comuni, teso a dare soluzione alternativa all’esproprio delle aree vincolate. Ed infatti a parte l’art. 30 della 47/85 che regola una fattispecie particolare, manca nella legislazione statale qualunque riferimento a tale istituto riferito alla pianificazione urbanistica, ne ve n’è traccia nel recente T.U. sulle espropriazioni successivo alla sentenza della Corte cost [nota 11].

La legge sul procedimento amministrativo – 241/90 – recentemente modificata ha previsto, tuttavia, la possibilità di ricorrere da parte della P.A. ad accordi sostitutivi di provvedimento per i quali non sussiste più il limite dei casi espressamente previsti dalla legge, legittimando quindi la facoltà del comune di trovare, tramite l’accordo, quella compensazione tra aree cedute e modalità alternative all’indennizzo monetario di cui la Corte ha parlato.

La pratica delle compensazioni in luogo dell’indennizzo espropriativo si è così diffusa in molti piani regolatori comunali ove è previsto, nei casi più sistematici, sulla base dell’individuazione di “ambiti” compensativi, la rilocalizzazione delle volumetrie concesse ai proprietari espropriandi.

Detta così, sembrerebbe soluzione razionale e facile da applicare. In realtà, si pongono numerosi problemi legati alla trasparenza dell’azione amministrativa ed al rispetto del principio di legalità.

Intanto, anche acquisita l’area da parte del comune, resta la necessità di realizzare quelle opere di urbanizzazione secondaria, a carico del comune, che non possono più essere procrastinate poiché quest’ultimo ha ora la piena disponibilità delle aree a standards.

In secondo luogo, se il ristoro riguarda il riconoscimento di diritti edificatori per soddisfare le pretese del privato, ciò comporta un ulteriore consumo di suolo edificabile, non previsto dal vigente piano regolatore.

In terzo luogo, isolato il procedimento di rimozione dei vincoli urbanistici dal contesto della pianificazione urbanistica generale, si pone necessariamente la necessità di variare il piano regolatore per ospitare il nuovo carico edificatorio. Ecco perché, come vedremo, soluzioni del genere non possono essere sganciate da un ripensamento parziale o generale delle scelte di pianificazione. In breve, il processo di eliminazione dei residuali vincoli urbanistici, comporta un nuovo atto di pianificazione. I sistemi compensativi attinenti ai vincoli urbanistici si coniugano, nelle esperienze più avanzate, con la perequazione sia parziale o a posteriori o con quella ben più impegnativa della perequazione generalizzata o a priori che riguardano la gran parte o l’intero territorio comunale.

Ma attenendoci per ora, al procedimento amministrativo di rimozione dei vincoli tramite compensazioni edificatorie – che è il caso più comune – giova qui ricostruire il percorso attraverso il quale l’amministrazione comunale esercita il potere.

Né le leggi regionali [nota 12] che hanno introdotto nella disciplina la facoltà in discorso, né gli stessi piani regolatori, che prevedono tale meccanismo, regolano l’esercizio trasparente dell’azione amministrativa lasciando aperte le seguenti questioni giuridiche.

Partendo dal generale, e facendo riferimento alla necessità che fattispecie uguali non possano ricevere una disciplina differenziata, pena il mancato rispetto del principio di uguaglianza dell’art. 3 Cost., si pone il problema di riconoscere a tutti i proprietari incisi dai vincoli urbanistici l’accesso alla modalità compensativa, altrimenti ci potremmo trovare di fronte ad una discriminazione tra proprietari/compensati e proprietari/espropriati. Certamente questo processo di riconversione può essere procedimentalizzato stabilendo delle priorità temporali o per zone, ma la necessaria trasparenza dell’azione amministrativa comporta che tutte le categorie di proprietari incisi siano prese in considerazione.

Inoltre, non è prevista alcuna indicazione circa le forme e la natura giuridica che dovrà assumere l’atto di offerta al privato; in quale fase del procedimento espropriativo, cioè, introdurre l’offerta del ricorso all’accordo sostitutivo di provvedimento, con quali garanzie per il privato, quali conseguenze in caso di rifiuto della proprietà a seguito di proposta inadeguata, quali criteri economici per la determinazione del valore espropriativo del bene immobile da commutare in volumi edificatori o permuta con altre aree, quali tempi per la conclusione del procedimento [nota 13].

Ma non basta. Si pone qui il tema della responsabilità che assume il funzionario comunale che acceda al meccanismo compensativo, più onerosa per la collettività poiché questo comporta un nuovo sovraccarico di volumi sul territorio comunale, rispetto all’ordinaria procedura espropriativa a carico delle finanze comunali. E’ evidente, che tra il dire e il fare c’è di mezzo la necessità che l’amministrazione si determini preventivamente attraverso l’emanazione di atti regolamentari che assumano in sé la disciplina di tutti gli elementi ora richiamati, sia per garantire la trasparenza dell’azione amministrativa sia per ricondurre l’esercizio dell’attività amministrativa discrezionale entro parametri di legittimità che tutelino la posizione dei privati. In sostanza l’attuazione delle scelte pianificatorie richiede anche qui la fissazione di regole onde ridurre il rischio dell’eccesso di potere o quello di irragionevolezza del comportamento della P.A. censurabile da parte del giudice amministrativo. Senza tralasciare il rispetto del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa rispetto al sacrificio imposto al privato anche in termini di compensazioni edificatorie. E qui si pone certamente il tema dell’equilibrio tra indennizzo espropriativo e riconoscimento delle volumetrie soprattutto in riferimento al soddisfacimento per il privato, in tempi rapidi, del bene della vita.

Né possono trascurarsi, restando sempre nella potestà dell’amministrazione di procedere all’esproprio dell’area, le modalità attraverso le quali dal consenso si debba passare necessariamente all’atto imperativo, in caso d’inerzia o di resistenza dei proprietari. Poiché un dato è certo: il procedimento avviato rientra certamente all’interno del processo di formazione della volontà politica dell’amministrazione di operare una “torsione” rispetto all’assetto urbanistico delle aree interessate al fine di migliorarne le dotazioni territoriali. Né si potrebbe escludere una forma di abuso di potere se non di violazione di legge nel caso in cui acquisita l’area l’amministrazione non proceda, in ossequio alla necessità di garantire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m, ad utilizzare l’area acquisita per realizzarvi le opere di urbanizzazione necessarie per la zona interessata, o di trovare comunque soluzioni perequative, o addirittura la destini all’edificazione privata, o infine il privato compensato non sia in grado di spendere la volumetria riconosciuta in altre aree del territorio comunale.

E’ evidente che di fronte a tutte queste variabili, e alla mancanza di un chiaro indirizzo del governo locale, la tentazione dei comuni è quella, alla decadenza definitiva del vincolo espropriativo, di procedere più semplicemente, e direi talvolta subdolamente, alla trasformazione del vincolo da espropriativo in conformativo, con tutte le conseguenze d’incerta garanzia della realizzazione delle dotazioni territoriali ad iniziativa dei privati e di legittimità dell’imposizione del vincolo a tempo indeterminato. Lì dove, invece, i comuni decidano di procedere alla rimozione dei vincoli si assiste all’emanazione di avvisi pubblici per categorie di aree e di proprietari attraverso i quali si fissano i termini perentori per la presentazione di offerte di cessione di aree vincolate a fini compensativi. L’evidenza pubblica è preceduta da determinazioni della giunta comunale che fissano le modalità di scambio economico tra aree cedute ed volumi assegnati. Sempre nell’ottica minimale pianificatoria, si prevedono, contemporaneamente, analoghi bandi pubblici destinati ad alcune categorie di proprietari disposti ad ospitare nelle loro aree i volumi edificatori compensati, a fronte del riconoscimento di una volumetria di cui le aree non dispongono, in molti casi perché a destinazione agricola. E’ evidente che in questi casi, raccolte le disponibilità di entrambe le categorie degli attori privati e fissati gli impegni convenzionali, l’amministrazione procede alla variazione parziale del piano regolatore.

La perequazione a priori o generalizzata

Con l’esame di una delle fattispecie relative alle cosiddette “compensazioni urbanistiche” abbiamo aggiunto un altro tassello alla ricostruzione del mosaico che si riconnette al principio perequativo nella pianificazione urbanistica. Siamo, tuttavia, di fronte ad un menù di strumenti e di tecniche pianificatorie settoriali che le amministrazioni più intraprendenti utilizzano sia separatamente sia congiuntamente con l’intento di correggere o di ridare coerenza alla crescita disordinata della città consolidata o delle sue periferie, favorendo processi di riqualificazione e di modernizzazione degli assetti di parti di città, senza tuttavia procedere ad un tentativo organico e generalizzato che miri a ripensare complessivamente l’assetto ordinato del territorio comunale in una prospettiva di lungo periodo. In queste esperienze è chiaro l’intento di usare del sistema compensativo/perequativo in modo misurato, lì dove può servire a correggere le distorsioni prodotte dalla pianificazione urbanistica vigente. Il metodo perequativo parziale e a posteriori è stato così oggetto di critiche da quanti sostengono che in tal modo la giustizia redistributiva si applicherebbe solo ad alcune categorie di aree e di proprietari, mantenendo così all’esterno degli ambiti perequati, la stessa discriminazione tra proprietari e tra zone del tradizionale piano regolatore. L’osservazione coglie nel vero ma a nostro avviso prova troppo, poiché come si è già detto non si può negare alla pianificazione una certa dose di discriminazione tra situazioni proprietarie, poiché se così non fosse si minerebbe alla radice il potere discrezionale della pubblica amministrazione nella cura degl’interessi pubblici. Inoltre, da quanto emerso finora, e da quanto emergerà nel proseguo dell’analisi delle più recenti esperienze perequative parziali, c’è da domandarsi se i proprietari “sperequati” siano quelli fuori degli ambiti perequativi o quelli che vi rientrino a pieno titolo. Il nucleo forte del modello perequativo descritto finora, non sta infatti tanto nella “valorizzazione” delle proprietà perequate quanto nei meccanismi della “cattura di valore” e nei connessi oneri esorbitanti che gravano sempre più su determinati modelli di comparto. Il che potrebbe non rivelarsi particolarmente vantaggioso per i proprietari “perequati”. Sul punto si possono qui fare già due considerazioni. La prima che mette in evidenza che per quanto si cerchi di sterilizzare la discriminazione insita nella pianificazione (superamento delle zone) il principio di differenziazione rimane e rimarrà sempre elemento intrinseco alle scelte urbanistiche. La seconda, che anche nella perequazione generalizzata o a priori il meccanismo dell’indifferenza dei proprietari rispetto alle scelte di pianificazione è solo apparente, poiché l’esercizio del potere di pianificazione produce comunque rapporti differenziati tra proprietà e poteri pubblici. Basti per ora, citare il fatto che i proprietari delle aree a destinazione agricola e quelli rientranti nel territorio del patrimonio edilizio esistente e consolidato non sono toccati dai meccanismi perequativi.

Il territorio urbano è, in breve, pieno di “buone pratiche” ovvero d’interventi puntuali che mirano a ridare senso a quartieri degradati o marginalizzati od a creare anche situazioni d’eccellenza, ma tutto ciò manca di una prospettiva che introduca effettivamente su tutto il territorio comunale meccanismi perequativi generali che non solo affrontino in radice il fenomeno della rendita di posizione o differenziale ma che procedano all’applicazione tendenziale del principio di uguaglianza tra proprietari che costituisce il “mito” della moderna urbanistica. I mentori della perequazione urbanistica generalizzata e a priori – tra i quali spicca in Italia Stefano Pompei, un urbanista che tra i primi ha prospettato l’applicazione in Italia di tale modello – ne hanno rivendicato con forza l’oggettività della tecnica scevra da contaminazioni di discrezionalità politico-amministrativa ed aliena dal ricorso alla contrattazione urbanistica tra pubblico e privato nell’apposizione delle prescrizioni urbanistiche, propria del modello perequativo parziale o a posteriori. Si tratta tuttavia, alla luce delle esperienze dei modelli perequativi generalizzati in corso soprattutto in Lombardia di posizioni che in parte contraddicono tale assunto.

Orbene, il modello della perequazione generalizzata o a priori si differenzia dai primi due poiché si tende ad attribuire alla perequazione un meccanismo applicativo generalizzato esteso tendenzialmente ad una parte rilevante del territorio comunale riguardante le aree di espansione o di trasformazione. In questo caso è previsto il riconoscimento di parametri di edificabilità convenzionali – normalmente piuttosto bassi – uniformi per categorie di aree del territorio comunale, sulla base dello stato di fatto e di diritto esistente, classificate con criteri preventivi rispetto alle scelte di piano (che prescinde cioè dal piano in formazione) e soprattutto non correlati al carico urbanistico definito successivamente dal piano.

Il complesso dei volumi così riconosciuti, in materia uniforme, a tutte le proprietà della stessa classe non coincide con il carico urbanistico effettivo previsto per il raggiungimento degli obiettivi del piano. In questo caso il meccanismo perequativo consente di individuare una maggiorazione di edificabilità che è dovuta esclusivamente alla pianificazione. Una parte di questa edificabilità aggiuntiva è gratuitamente riservata al comune, e coincide con le urbanizzazioni ed il fabbisogno di altri interventi pubblici, l’altra resta ad appannaggio dell’utilizzatore. Si può dire anzi che il riconoscimento a priori di capacità edificatorie convenzionali si converte in quantità di edificazione sensibilmente inferiori a quelle stimate complessivamente occorrenti per realizzare gli obiettivi del piano. Il risultato è che la differenza rappresenta la misura dell’edificabilità riservata alla mano pubblica. Ma questo meccanismo genera una sorta di edificabilità pubblica priva di area, acquisita dall’ente pubblico al di fuori dei meccanismi appropriativi tipici (ad es. l’esproprio) e consente l’acquisizione al patrimonio pubblico di aree in una misura che non è parametrata alle esigenze effettive delle urbanizzazioni e degli standards ma che deriva in pratica per differenza dalla mera conversione del parametro di edificabilità convenzionale, sulla cui legittimità la giurisprudenza amministrativa ha assunto posizioni contrastanti.

Già dalla sommaria esposizione emerge che questo modello si differenzia notevolmente dai precedenti. In primo luogo perché il metodo perequativo si applica alla totalità delle aree di trasformazione. Ne consegue che mentre nei primi due modelli convivono due distinti regimi – la zonizzazione e gli ambiti perequativi – in questo la conformazione dei suoli prescinde dallo zoning e articola il territorio sulla base di una diversa classificazione dei suoli. In secondo luogo, il processo di formazione della volontà politica dell’amministrazione si sdoppia: prima la classificazione dei suoli trasformabili e l’attribuzione di un indice edificatorio convenzionale (Ice), poi la effettiva conformazione dei suoli espressa attraverso il carico edificatorio attribuito dal piano.

L’avvio di un procedimento di tal guisa presenta problemi di notevole complessità poiché tende a coniugare scelte di discrezionalità tecnica con scelte di discrezionalità amministrativa.

Da tempo autorevoli giuristi ritengono che la potestà conformativa del potere pubblico sui beni immobili – specie se riferita ai piani urbanistici – sia dotata di eccessiva discrezionalità. Una discrezionalità nel quid e nel quomodo (contenuto e tempi e modi di adozione del provvedimento). Sarebbe invece imposto al legislatore, in base al principio di legalità sostanziale, dettare precise prescrizioni e limiti contenutistici per la definizione dei poteri amministrativi [nota 14]. Il metodo individuato attraverso la classificazione preventiva per classi di suoli sembrerebbe ridurre la discrezionalità amministrativa riscontrabile nel sistema dello zoning poiché baserebbe le proprie scelte su atti di discrezionalità tecnica classificando preventivamente i suoli sulla base dello stato di fatto e di diritto. E’ quanto ebbe a sostenere la Corte cost. più di quarant’anni fa [nota 15] allorquando dopo aver riconosciuto che i comuni, nella formazione dei piani regolatori hanno «un margine di discrezionalità, sia per quanto riguarda la ripartizione in zone del territorio comunale, sia per ciò che riguarda il regime della proprietà privata nell’ambito delle singole zone» e dopo aver ricordato che «l’attribuzione del potere discrezionale è da ritenere legittimo solo qualora nella legge ordinaria siano contenuti elementi e criteri idonei a delimitare chiaramente la discrezionalità dell’amministrazione» afferma che «la normativa è tuttavia legittima in quanto non si tratta di discrezionalità indiscriminata e incontrollabile bensì di discrezionalità tecnica. La quale essendo condizionata da elementi di carattere tecnico, importa che l’attività normativa devoluta all’amministrazione (nella specie ai comuni) si deve svolgere entro determinati confini di carattere obiettivo, e che, per ciò stesso, rimane sotto questo aspetto, delimitata dalla libertà di apprezzamento». Sentenza che, riferita al tradizionale sistema di conformazione dei suoli del Prg zonizzato, secondo alcuni [nota 16] «lascia interdetti per la sua siderale distanza dalla realtà» ma, inerendo al metodo della perequazione generalizzata, sembrerebbe pienamente conforme all’interpretazione della Corte costituzionale.

Le lenti del giurista si soffermano su questo aspetto, tuttavia sappiamo che non è questa la principale preoccupazione dei sostenitori della perequazione poiché la classificazione è solo un presupposto dell’azione discrezionale dell’amministrazione che nel determinare successivamente le scelte effettive di edificabilità dei suoli classificati opera attraverso un chiaro potere discrezionale amministrativo. Sotto questo profilo, dunque, il procedimento di formazione delle scelte pubbliche in materia di assetto urbanistico non sarebbe cambiato molto rispetto alla filosofia della legge del ’42.

A questo punto conviene però affrontare il nodo della classificazione.

La classificazione dei suoli e l’indice convenzionale di edificabilità (Ice)

La teoria [nota 17] propone una classificazione delle aree da trasformare che si basa sul loro stato di fatto e di diritto. La congiunzione dei due elementi di riconoscibilità determina un indice di edificabilità convenzionale attribuito a quest’ultime. Tanto più il primo elemento – lo stato di fatto – si basa su una serie nutrita di criteri conoscitivi, tanto più avremo una cospicua classificazione di suoli che tendenzialmente frammenta il territorio trasformabile [nota 18]. La classificazione risente, dunque, in modo determinante della scelta dei criteri che devono basarsi su valutazioni il più possibile oggettive, “ripetibili” [nota 19] e verificabili anche di fronte al giudice amministrativo chiamato a giudicare della ragionevolezza dell’operato dell’amministrazione [nota 20]. Il secondo elemento è relativo allo stato di diritto delle aree o dei suoli in questione. Per stato di diritto s’intende la destinazione d’uso sulla base dello strumento urbanistico vigente che ne determina l’eventuale edificabilità. Ma non sembra che questo elemento possa influire più che tanto sull’indice di edificabilità virtuale riconosciuto poiché questo potrebbe anche prescindere dalla conformazione dei suoli vigente, dovendolosi collegare con lo stato di fatto [nota 21]. Operando una classificazione “per aree omogenee” o meglio per classi omogenee, vi potrebbe essere un livellamento dell’edificabilità virtuale, a prescindere dai cosiddetti diritti acquisiti. Sui quali, peraltro, si fa gran confusione poiché non si tratta di diritti ma di mere aspettative che ben possono essere contraddette dalle nuove scelte di piano. Certamente qui il punto decisivo è che la classificazione sia inattaccabile sotto il profilo delle scelte tecniche e soprattutto adeguatamente motivata. Sotto questo profilo va rilevato che una rigida classificazione delle aree nello stato di fatto e di diritto, ai fini del riconoscimento del plafond legal de densitè costituisce un pericoloso precedente nel caso di future decisioni dell’amministrazione volte a ridurre l’edificabilità del piano regolatore, poiché l’eventuale retrocessione di determinate aree ad uso agricolo, comporterebbe la rimodulazione della classificazione cui quelle aree appartengono, con conseguenze sull’intera categoria. In altre parole, sarebbe difficile per l’amministrazione giustificare un provvedimento specifico che non riguardi tutte le aree della stessa categoria, a meno che non vi siano per quelle specifiche ragioni di carattere ambientale a rilevanza eteronoma. In difetto, ci troveremmo qui di fronte non ad una mera aspettativa, ma ad una aspettativa “qualificata”. Dal mix dello stato di fatto e di diritto, che anche qui non è operazione meccanica ma dettata da motivazioni discrezionali e quindi ponderate, discende l’attribuzione, per classi di suoli, dell’indice edificatorio attribuito a ciascuna classe. L’indice convenzionale di edificabilità (Ice) altro non è che la quantità di edificazione spettante al terreno (Qtr) di cui l’Ice costituisce la misura. La misura di edificabilità riconosciuta al proprietario diviene cosi attributo fisso della classe alla quale i terreni appartengono [nota 22]. E’ bene qui rilevare che l’Ice è il rapporto tra quantità di edificazione realizzabile a seguito dell’approvazione dello strumento urbanistico e la superficie interessata dalla trasformazione. Ma tale indice è riferito alla sola edificabilità privata attribuita ai suoli, e non considera l’edificazione che il piano può attribuire all’amministrazione per finalità generali. L’indice perequativo, in breve, «costituisce solo una parte della quantità di edificazione complessiva dei suoli misurata dalla somma dell’indice perequativo – di pertinenza dei privati – e di quello di natura pubblica, che l’amministrazione riserva a sè» [nota 23].

La manovra urbanistica del Prg perequativo

La classificazione, dunque, è prodromica alle scelte che l’amministrazione adotta con il vero e proprio procedimento di conformazione dei suoli. In sostanza, la prima costituisce la preparazione del “tavolo operatorio” mentre il piano procede attraverso un complesso “intervento chirurgico” operando numerose “cesure o ricuciture, trapianti ed innesti o asportazioni” sul territorio trasformabile al fine di trovare il giusto equilibrio tra città pubblica e città privata.

E’ il Prg che detta la disciplina d’uso dei suoli “perequati”, non avendo l’assegnazione dell’indice alcuna efficacia conformativa, fino a quando non si sia concluso il procedimento di approvazione del piano urbanistico, ma costituendo semmai oggetto di un’aspettativa “qualificata” da parte del proprietario. In tal senso le scelte di piano assumono il valore di una vera e propria manovra urbanistica poiché se l’obiettivo è in qualche modo quello di combattere la rendita livellando le aspettative edificatorie delle varie categorie di proprietari appare chiaro – come nel modello originario del comparto della legge del 1942 – che non è detto che i titolari dell’indice convenzionale di edificabilità possano spenderlo sulle proprie aree, prefigurandosi la possibilità che il piano scelga di concentrare le volumetrie riconosciute sono in alcune parti della città traslando i diritti edificatori nelle aree di atterraggio previste. Ecco perché ho parlato di aspettativa qualificata intendendosi qui l’affidamento che il proprietario riconnette all’indice perequativo, il cui utilizzo viene stabilito nei modi e nei tempi e nei luoghi fissati dal piano. Tuttavia, a differenza del modello tradizionale del Prg [nota 24], l’effettiva conformazione del suolo comporta il riconoscimento di un diritto edificatorio, cui consegue l’onere della traslazione in altre aree del piano, nel caso in cui ne sia impedito l’esercizio nella propria area, oppure residua sempre all’amministrazione il potere discrezionale di variare la previsione urbanistica in caso di successive scelte? Infatti, una cosa è sostenere che «il riconoscimento di un diritto edificatorio in alcun modo può venir meno, cosicchè se nelle successive fasi del procedimento di approvazione il piano ne impedisce l’esercizio sulla propria area, è onere del comune prevederne la trasferibilità in altre aree di piano regolatore, altro è riconoscere all’amministrazione, anche nel nuovo modello perequativo, la facoltà discrezionale di rivedere in peius la trasformabilità di alcune aree» [nota 25].

E qui si aprono scenari diversi – che bisogna riconoscere – sono dovuti all’estro e all’intuizione degli urbanisti che più di altri hanno contribuito a rompere la staticità zonizzativa del piano a favore di disegni differenziati che permettono di rileggere il territorio in trasformazione sulla base di ambiti che tengano conto della necessità di ricucire i tessuti urbani in funzione non solo perequativa ma anche redistributiva degli oneri a carico dei privati. E non solo, poiché attraverso il mix del sistema perequativo/compensativo si dischiude la possibilità per il potere pubblico, da un lato di ricostruire un itinerario degli spazi pubblici che costituisca il fil rouge della città pubblica, e dall’altro di creare delle condizioni minime di uniformità dei servizi “reali” (trasporti, circolazione, rifiuti, sicurezza) che rendano indifferenti nel territorio di riferimento le condizioni di vita e di lavoro, in funzione cioè “perequativa” delle diverse opportunità residenziali e lavorative.

Una pianificazione quindi “per funzioni” e non per zone, lì dove le funzioni non vanno misurate solo sul parametro dell’edificabilità delle aree, ma rispetto all’obiettivo della qualificazione dell’ambito per la creazione di situazioni di eccellenza (centri culturali, opere architettoniche, luoghi del tempo libero) o per la valorizzazione della loro vocazione terziaria se non quaternaria, o per la creazione di grandi cinture verdi a servizio della collettività. Ed è per questo che – a seconda del tipo di funzione – può rendersi necessario concentrare maggiore volumetria in alcuni ambiti piuttosto che in altri, azzerandola nelle aree della conservazione naturale, ma a questo fine non attribuendo, e quindi sperequando, indici edificatori differenziati che riprodurrebbero in molti casi una premialità ingiustificata a determinati contesti proprietari, ma più semplicemente operando una redistribuzione dei volumi edificatori prelevandoli da altri contesti e quindi perequando il carico edificatorio del piano.

Una scommessa gigantesca tanto più possibile quanto più l’amministrazione si renda egemone nell’attuazione del piano dialogando continuamente con le proprietà e favorendo in ogni modo la simultanea concertazione tra interessi privati ed interessi pubblici.

Se questo è il messaggio “culturale” del piano perequato possiamo ora mettere in evidenza che non esiste un modello monolitico della perequazione [nota 26], offrendosi un ampio menù delle soluzioni possibili a disposizione dell’amministrazione che costituiscono attrettante “leve” per operare una “torsione” del piano “statico”, proprio della zonizzazione, verso il piano “dinamico” della perequazione/compensazione, utilizzandole, caso per caso, per modulare le proprietà e quindi le scelte di piano in funzione dell’interesse pubblico in concreto e non astratto. Non di prescrizioni rigide o immodificabili quindi ma di esercizio di un potere consensuale che si basa essenzialmente sulla collaborazione con gli interessi privati che devono essere guadagnati al miglior assetto dei territori della trasformazione.

Principio perequativo e disciplina concorrente in materia di governo del territorio

Con l’aumentare del ricorso alle esperienze di perequazione si è posto da più parti il problema se l’adozione di tali modelli all’interno del Prg richieda o meno una copertura legislativa nazionale o almeno di rango regionale. La giurisprudenza amministrativa, nei pochi casi nei quali è stata chiamata a giudicare della legittimità del metodo perequativo ritiene che, anche senza l’intervento del legislatore, la tecnica della perequazione di volumi (e in qualche caso anche di valori) sia conforme ai principi desumibili dalla legislazione vigente in quanto si tratta di esercizio del potere pianificatorio finalizzato alla conformazione dei suoli che la legislazione vigente attribuisce all’ampia discrezionalità dell’amministrazione nel determinare il quid del provvedimento pianificatorio. In giurisprudenza sono molteplici le decisioni nelle quali si afferma che la perequazione non deroga, ma attua, le scelte di pianificazione (Tar Emilia-Romagna, n. 22 del 1999; Tar Campania, Salerno, sez. I, 5 luglio 2002, n. 670; ID., 7 agosto 2003, n. 846; ID., 19 ottobre 2005, n. 1950; Tar Lombardia, Brescia, 20 ottobre 2005, n. 1043). La stessa giurisprudenza citata (Tar Emilia Romagna) che per prima si è espressa sulla legittimità del metodo perequativo nel Prg di Reggio Emilia, è precedente alla L.r. Emilia Romagna 20/2000 che poi ne ha fissato la disciplina generale. In breve, il sistema perequativo non necessita, lì dove manchi, di una disciplina legislativa regionale poiché si muove nell’ambito della disciplina generale della legge del 1942.

Più recentemente il Tar Veneto 1504/2009 [nota 27] ha respinto il ricorso dei privati avverso la trasformazione di alcune aree in zona di perequazione, nella quale tutti i proprietari concorrono agli oneri delle urbanizzazioni, superandone quindi la discriminazione. Anzi, il giudice di prime cure afferma che «il ricorso alla tecnica perequativa non appare affetto da vizi di legittimità non essendo di per sé vietato dalla legge e non presentando aspetti di illogicità o irrazionalità, essendo espressione di un approccio diverso al problema dell’organizzazione del territorio». Inoltre «il ricorso alla c.d. urbanistica perequativa è infatti dettato dalla volontà di operare in modo da redistribuire in maniera equilibra i vantaggi economici dell’edificabilità impressa alla aree, dotandole della medesima potenzialità edificatoria».

Cosa ci dicono queste sentenze? Che ormai il principio perequativo è entrato a pieno titolo tra le tecniche che possono venir utilizzate dal comune nella conformazione dei suoli, ma soprattutto che si sta diffondendo, anche se lentamente una “cultura” della perequazione che fino a pochi anni fa costituiva ancora un tabù. Ma ci dicono anche che l’esame dei casi concreti sottoposti al vaglio di legittimità della giurisprudenza amministrativa è il miglior metodo per comprendere appieno la “filosofia” della perequazione, probabilmente ancor meglio che attestarsi allo studio di altrettanta dottrina [nota 28].

Alcune leggi regionali hanno introdotto il principio perequativo con formule di carattere generale. L’Emilia Romagna con L.r. 20/2000 e s.m.i.

Art. 7 Perequazione urbanistica

«1. La perequazione urbanistica persegue l’equa distribuzione, tra i proprietari degli immobili interessati dagli interventi, dei diritti edificatori riconosciuti dalla pianificazione urbanistica e degli oneri derivanti dalla realizzazione delle dotazioni territoriali.

2. A tal fine, il Psc può riconoscere la medesima possibilità edificatoria ai diversi ambiti che presentino caratteristiche omogenee.

3. Il Poc e i piani urbanistici attuativi (Pua), nel disciplinare gli interventi di trasformazione da attuare in forma unitaria, assicurano la ripartizione dei diritti edificatori e dei relativi oneri tra tutti i proprietari degli immobili interessati, indipendentemente dalle destinazioni specifiche assegnate alle singole aree.

4. Il regolamento urbanistico edilizio (Rue) stabilisce i criteri e i metodi per la determinazione del diritto edificatorio spettante a ciascun proprietario, in ragione del diverso stato di fatto e di diritto in cui si trovano gli immobili al momento della formazione del Psc».

Il Veneto con L.r. 11/2004:

Art. 35 – Perequazione urbanistica

«1. La perequazione urbanistica persegue l’equa distribuzione, tra i proprietari degli immobili interessati dagli interventi, dei diritti edificatori riconosciuti dalla pianificazione urbanistica e degli oneri derivanti dalla realizzazione delle dotazioni territoriali.

2. Il piano di assetto del territorio (Pat) stabilisce i criteri e le modalità per l’applicazione della perequazione urbanistica.

3. Il piano degli interventi (Pi), i piani urbanistici attuativi (Pua), i comparti urbanistici e gli atti di programmazione negoziata attuano la perequazione disciplinando gli interventi di trasformazione da realizzare unitariamente, assicurando un’equa ripartizione dei diritti edificatori e dei relativi oneri tra tutti i proprietari delle aree e degli edifici interessati dall’intervento, indipendentemente dalle specifiche destinazioni d’uso assegnate alle singole aree.

4. Ai fini della realizzazione della volumetria complessiva derivante dall’indice di edificabilità attribuito, i piani urbanistici attuativi (Pua), i comparti urbanistici e gli atti di programmazione negoziata, individuano gli eventuali edifici esistenti, le aree ove è concentrata l’edificazione e le aree da cedersi gratuitamente al comune o da asservirsi per la realizzazione di servizi ed infrastrutture, nonché per le compensazioni urbanistiche ai sensi dell’articolo 37».

Si tratta di disposizioni regionali che rientrano nell’ambito della funzione urbanistica di disciplina sostanziale nei confronti dell’attività dei comuni finalizzata a dettare criteri, indirizzi, standards, parametri di comportamento nell’attività di pianificazione del territorio comunale. Non sono di facile lettura per i non addetti ai lavori poiché in tali regioni si è introdotto anche un diverso modello di piano regolatore articolato in piano strutturale e piano operativo cui si aggiunge in qualche caso anche il regolamento urbanistico. Va qui segnalato un punto e cioè che così come nell’ambito del principio fondamentale della pianificazione le leggi regionali hanno potuto modificare il sistema del piano regolatore attraverso una diversa articolazione dei procedimenti di conformazione dei suoli senza che ciò abbia sollevato rilievo né da parte della giurisprudenza amministrativa nè finora di quella costituzionale, a maggior ragione l’introduzione del metodo perequativo non è altro che un aspetto delle tecniche di pianificazione cui gli stessi piani possono ricorrere in funzione redistributiva degli interessi privati e della copertura del fabbisogno di dotazioni territoriali.

In conclusione, se il principio è quello dell’equa distribuzione dei diritti edificatori (e degli oneri di urbanizzazione) indipendentemente dalle destinazioni d’uso, si possono qui sintetizzare i risultati che si ottengono attraverso l’uso “misurato” dello strumento perequativo nel piano urbanistico:

a) l’eliminazione in radice del vincolo espropriativo nel processo di urbanizzazione delle aree urbane; b) la realizzazione a carico dei proprietari delle opere di urbanizzazione previste e la cessione gratuita delle aree necessarie; c) l’affermarsi della mixitè in luogo della rigidità funzionale delle zone; d) il superamento dei limiti degli oneri concessori a favore di una maggiore solidarietà dei proprietari verso la città pubblica.

Perequazione e diritto di proprietà

Le pronunce del giudice amministrativo richiamate si riferiscono ai casi di perequazione parziale o a posteriori che, come è noto, riguardano limitate porzioni del territorio comunale. Le perplessità sorgono riguardo ai casi di perequazione generalizzata che, per la loro estensione, incidono profondamente sul contenuto del diritto di proprietà anche perché prevedono complessi meccanismi di traslazione dei volumi edificatori verso altre aree di atterraggio od anche senza la previsione definitiva della loro localizzazione. La questione che si pone è se queste misure, incidendo sui modi di acquisto e sui limiti di questo diritto al fine di garantirne la funzione sociale, a mente dell’art. 42, comma 2 della Costituzione, non possano ingenerare forti dubbi di legittimità costituzionale [nota 29]. L’articolo pone, infatti, una riserva di legge statale in materia di contenuti e limiti al diritto di proprietà unitamente all’art. 117, comma 2, lett. l, che attribuisce alla competenza esclusiva statale la materia dell’ “ordinamento civile” [nota 30] di cui la proprietà costituisce nucleo centrale. A ciò deve aggiungersi il conflitto con l’art. 3 della Costituzione sul principio di uguaglianza cui si ricollega anche l’art. 117, comma 2, lett. m, della Costituzione, più volte richiamato, che attribuisce alla competenza esclusiva statale la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili – e quindi di quei “diritti” riferibili all’intera collettività urbana che finiscono per incidere, seppure, di riflesso sulla fruizione della proprietà [nota 31] – e sociali da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale. Le censure quindi – soprattutto se le discipline regionali emanate finiscono per configurare in modo differenziato uno “statuto” della proprietà fondiaria – tramerebbero a favore della incostituzionalità della disciplina.

Queste forti perplessità vanno, tuttavia, ridimensionate anche se certamente si pone un confine sottile tra la materia del governo del territorio e quella dell’ordinamento civile testé richiamato.

Va intanto sgombrato il campo circa l’impossibilità delle regioni di legiferare in materia poiché nella disciplina statale mancherebbe l’individuazione di un principio fondamentale in tema di perequazione urbanistica. Sul punto la Corte costituzionale ha chiarito che «la mancanza di un’espressa, specifica disciplina statale contenente i principi fondamentali di una determinata materia di competenza legislativa concorrente, non impedisce alle regioni di esercitare i propri poteri, in quanto in ogni caso i principi possono e devono essere desunti dalla preesistente legislazione statale» [nota 32]. Peraltro, lo stesso principio della materia sarebbe desumibile dall’art. 23 della legge urbanistica fondamentale in materia di comparti perequativi. La perequazione urbanistica rientrerebbe nel potere conformativo della proprietà espressione del più generale potere di governo del territorio.

Più delicata la questione riguardo al confine dell’ordinamento civile, ma anche qui la Corte costituzionale ha avuto modo di chiarire in più di una sentenza che «la preclusione al potere legislativo regionale di interferenze nella disciplina dei diritti soggettivi riguarda i profili civilistici dei rapporti da cui derivano, cioè i modi di acquisto e di estinzione, i modi di accertamento, le regole sull’adempimento delle obbligazioni e sulla responsabilità per inadempimento, la disciplina della responsabilità extracontrattuale, i limiti dei diritti di proprietà connessi ai rapporti di vicinato, e via esemplificando, ma non la conformazione del contenuto dei diritti di proprietà» [nota 33]. E ancora più esplicitamente la Consulta ha sottolineato che «se alle regioni è precluso legiferare in materia di diritto privato, tale preclusione concerne i rapporti intersoggettivi e non riguarda il potere di conformare il contenuto del diritto di proprietà al fine di assicurarne la funzione sociale» [nota 34].

Ne consegue che i meccanismi perequativi previsti dalle norme di piano possono essere considerati espressione del potere di conformazione del territorio e della proprietà laddove incidano su diritti collegati a un bene immobile al fine di assicurarne la funzione sociale [nota 35]. Certamente spetterà al giudice amministrativo sindacare le scelte irragionevoli contenute nelle disposizioni dei piani perequativi.

Tuttavia, i modelli perequativi prevedono il trasferimento dei diritti edificatori, la loro libera commerciabilità e il loro atterraggio in altre aree del piano regolatore, il che sembra incidere proprio sui diritti soggettivi e sui rapporti civilistici che ne derivano. Su questo aspetto sempre la Corte costituzionale [nota 36] affrontando i profili di costituzionalità del «piano nazionale di edilizia abitativa» di cui alla legge n. 133/2008 ha avuto modo di rilevare incidentalmente che proprio gli aspetti che attengono al trasferimento e alla cessione dei diritti edificatori vanno regolati dal legislatore statale rientrando nell’ambito delle competenze di cui all’art. 117, comma 2, lett. l, “ordinamento civile”. E d’altronde, come potrebbe essere affidato al legislatore regionale il compito di disciplinare gli aspetti giuridici relativi alla pubblicità e alla opponibilità ai terzi degli atti di trasferimento dei diritti edificatori? [nota 37]

A colmare questa grave lacuna normativa è intervenuto ora il D.l. 70/2011 che all’art. 5 ha introdotto all’art. 2643 comma 1 del codice civile la nuova figura dei contratti di trasferimento dei diritti edificatori oggetto di specifica relazione in questo Convegno.


[nota 1] Sul tema della perequazione vi è ormai una notevole letteratura. Per gli scritti degli urbanisti: S. POMPEI, Il piano regolatore perequativo, Milano, 1998; ID., «Cinque nodi lungo la via della perequazione in Italia», in Urbanistica, 1997; Le prospettive perequative per un nuovo regime immobiliare e per la riforma urbanistica a cura di C.A. Barbieri e F. Oliva, in Urbanistica. Quaderni, 1995, 7; Piano urbanistico. Interessi fondiari, regole perequative a cura di A. Dal Piaz e F. Forte, Napoli, 1995; F. FORTE, «Perequazione urbanistica e attuabilità del piano comunale», relazione alla giornata di studio e Convegno di Piacenza, 12-13 marzo 1998, “I nuovi strumenti dell’urbanistica comunale”; E. MICELLI, Perequazione urbanistica. Pubblico e privato per la trasformazione della città, Venezia, 2004; ID., «La perequazione urbanistica per l’equità e l’efficacia del piano»relazione al Convegno di Trapani, 28 novembre 2008, “Perequazione urbanistica e nuovi scenari per il governo del territorio”; ID., «Le forme possibili della perequazione. Due casi di studio a confronto», relazione alla giornata di studio e Convegno di Piacenza, 12-13 marzo 1998 cit.; F. OLIVA, “Il nuovo piano”, relazione al Congresso nazionale Inu di Ancona, 18 aprile 2008, Il nuovo piano; P. FUSERO, «Il modello perequativo morfologico», in www.esproprioonline.it.
Per gli scritti dei giuristi: E. BOSCOLO, «Le perequazioni e le compensazioni», in Riv. giur. urb., 2010, 1, p. 104 e ss.; S. PERONGINI, Profili giuridici della pianificazione urbanistica perequativa, Milano, 2005; L. PISCITELLI, Perequazione e integrazione tra zone, in AA.VV., L’uso delle aree urbane e la qualità dell’abitatocit., p. 165 e ss.; P.L. PORTALURI, Poteri urbanistici e principio di pianificazione, Napoli, 2003; M.A. QUAGLIA, Pianificazione urbanistica e perequazione, Torino, 2000; G. SABBATO, «La perequazione urbanistica»relazione al Convegno di studi di Salerno, 20 novembre 2009, “Attività edilizia fra governo del territorio e tutela paesaggistica e ambientale”; A. TRAVI, «Accordi fra proprietari e comune per modifiche al piano regolatore e oneri esorbitanti», in Foro it., 2002, p. 274 e ss.; P. URBANI, «La perequazione tra ipotesi di riforma nazionale e leggi regionali», in Ed. e terr. Commenti e norme, 2008, 30; ID., voce Urbanistica, in Enc. giur. Treccani, Aggiornamento XVII, 2009; ID., «Urbanistica consensuale», cit.; ID., «Concertazione e perequazione urbanistica», in Atti del Convegno di Lisbona sulla perequazione urbanistica 15-18 giugno 2008, in www.pausania.it; ID., «Ancora sui principi perequativi e sulle modalità di attuazione dei piani urbanistici», in Riv. giur. urb., 2004, p. 509 e ss.; ID., «I problemi giuridici della perequazione urbanistica», ivi, 2002, p. 587 e ss.; F. VARONE, «Trasferimento di edificabilità, così negli Stati Uniti si induce il privato a tutelare beni e aree», in Ed. e terr. Commenti e norme, 2010, 10, p. 15 e ss.; B. GRAZIOSI, «Figure polimorfe di perequazione urbanistica e principio di legalità», in Riv. giur. ed., 2007, 4-5, p. 147 e ss.; S. VASTA, «Perequazione urbanistica e giustizia distributiva», in Riv. giur. urb., 2009, p. 356 e ss.; A. GAMBARO, «Compensazione urbanistica e mercato dei diritti edificatori», in Riv. giur. ed., 2010, 1, parte II, p. 3 ss.; P. URBANI, «Sistemi di pianificazione urbanistica perequativa e principio di legalità dell’azione amministrativa dopo le decisioni del Consiglio di Stato sul Prg di Roma», in www.giustamm.it, pubblicato il 2 agosto 2010; A. POLICE, «Gli strumenti di perequazione urbanistica. Magia evocativa dei nomi, legalità ed effettività», in Riv. giur. ed., 2004, 1, parte II, p. 3 e ss.; P. STELLA RICHTER, «La perequazione urbanistica», ivi, 2005, 2, p. 169 ss.
Per quanto riguarda il caso comparato le esperienze-pilota si devono alla Spagna, Portogallo, ma soprattutto ad alcuni stati federali degli Stati Uniti: A. NELSON, La nuova generazione di oneri urbanizzativi negli Stati Uniti, in Urbanistica e fiscalità locale. Orientamenti di riforma e buone pratiche in Italia e all’estero a cura di F. Curti, Rimini, 1999, p. 95-134; M. PORTER, «Il vantaggio competitivo delle nazioni», in Harvard Espansione, 1990, 48; R. PRUETZ, Putting Transfer of Development Rights to Work in California, Point Arena, 1993; V. RENARD, Imposte sulla proprietà, fornitura di servizi pubblici e politica dei suoli in Francia, in Urbanistica e fiscalità locale…cit., p. 95-134; D. ISAAC, Property Development. Appraisal and Finance, London, 1996; Le financement des équipements publics de demain, a cura di G. Terny e R. Prud’homme, Paris, 1986.

[nota 2] «Secondo la legge chimico-fisica dei vasi comunicanti, in ogni sistema globalmente comunicante il liquido tende a disporsi in tutti i punti del sistema allo stesso livello obbedendo all’azione della pressione atmosferica». Riprendo questa definizione riferita a tutt’altro tema da E. Scalfari, «La vera storia del caso Marchionne», in la Repubblica, 25 luglio 2010.

[nota 3] Secondo le immaginifiche prospettazioni dei sociologi che distinguono tra proprietari la cui proprietà è soggetta a uso agricolo o edificabile.

[nota 4] Riemerge qui il problema della rendita di posizione o differenziale degli immobili al cui ridimensionamento dovrebbero provvedere proprio i meccanismi perequativi.

[nota 5] Come tentò di fare il progetto di legge Sullo negli anni sessanta senza successo.

[nota 6] E. MICELLI, Perequazione urbanistica…cit.

[nota 7] E. MICELLI, Perequazione urbanistica…cit.

[nota 8] L’attuazione degli interventi può essere oggetto anche di una convenzione tra il consorzio dei proprietari e l’amministrazione comunale nella quale sono regolati i rispettivi impegni delle parti.

[nota 9] Art. 39 T.U. 327/2001.

[nota 10] Sul punto P. MARZARO GAMBA, «Credito edilizio, compensazione e potere di pianificazione. Il caso della legge veneta», in Riv. giur. urb., 2005, 4, p. 645.

[nota 11] T.U. 327/2001 e s.m.i.

[nota 12] L.r. Emilia Romagna, 24 marzo 2000; L.r. Basilicata, 11 agosto 1999, n. 23; L.r. Lazio, 22 dicembre 1999, n. 38; L.r. Puglia, 27 luglio 2001, n. 20; L.r. Calabria, 16 aprile 2002, n. 19; L.r. Campania, 22 dicembre 2004, n. 16; L.r. Veneto, 23 aprile 2004, n. 11; L.r. Lombardia, 11 marzo 2005, n. 12; L.r. Umbria, 22 febbraio 2005, n. 11; L.p. Trento, 11 novembre 2005, n. 16, poi sostituita dalla L.p. 4 marzo 2008, n. 1; L.r. Friuli Venezia Giulia, 23 febbraio 2007, n. 20; L.p. Bolzano, 2 luglio 2007, n. 3, recante modifiche alla L.p. Bolzano 11 agosto 1997, n. 13, art. 55-bis.

[nota 13] E. BOSCOLO, «Le perequazioni e le compensazioni», in Riv. giur. urb., 2010, 1, p. 104.

[nota 14] P. STELLA RICHTER, Diritto urbanistico, Milano, 2010.

[nota 15] Corte Cost. 14 maggio 1966, n.38.

[nota 16] P. STELLA RICHTER, Diritto urbanisticocit., p. 48.

[nota 17] S. POMPEI, op. cit.

[nota 18] Secondo E. MICELLI, op. cit., p. 35, che ha esaminato un buon numero di piani perequativi la classificazione delle aree non supererebbe la decina, articolata anche in sottoclassi.
Secondo S. Pompei le classi possono essere suddivise in territorio urbano consolidato (Tuc), territorio urbano marginale (Tum), territorio perturbano (Tpu), territorio quasi urbano (Tqu), territorio libero (Tl) ed in relative sottoclassi.

[nota 19] E. BOSCOLO, «Le perequazioni…», op. cit.,

[nota 20] Se l’area è suscettibile di trasformazione in senso edificatorio – specie per quelle che transitano dal regime agricolo – non dovrebbero essere indifferenti, per lo stato di fatto, la presenza di opere di urbanizzazione primaria contermini alle aree, lo stato dei collegamenti infrastrutturali, l’assenza di vincoli eteronomi ecc. Meno complesso invece il caso delle aree già urbanizzate e trasformabili che probamente fruiscono già di una destinazione edificatoria. Possono essere qui riprese le parole della Corte cost. nella sent. 231/1984, in tema d’indennizzo espropriativo, nel delineare la potenzialità edificatoria di un’area, «in base ad un complesso di elementi certi ed obiettivi, relativi all’ubicazione del terreno stesso, alla sua accessibilità, alla presenza d’infrastrutture che attestano una concreta attitudine del suolo all’utilizzazione edilizia. Del resto, l’edificabilità, può essere desunta, secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione, oltre che dall’ubicazione dell’area nel centro abitato, dall’esistenza di strade pubbliche, nelle immediate adiacenze, di collegamento con il nucleo urbano, dall’edificazione già iniziata nella zona, dalla presenza di servizi pubblici necessari alla vita cittadina».

[nota 21] Nelle previsioni dei piani regolatori tradizionali infatti la previsione delle aree edificabili non si collega sempre con l’esistenza di opere di urbanizzazione o con il collegamento sistematico delle aree stesse al sistema infrastrutturale, tutti elementi questi che riguardano la fissazione dei criteri relativi allo stato di fatto. Tipico il caso delle aree di espansione subordinate a piano attuativo convenzionato (le lottizzazioni) la cui localizzazione si pone spesso anche a rilevante distanza dalle aree contermini urbanizzate dotate di opere di urbanizzazione primaria.

[nota 22] Riprendo le parole di S. POMPEI, op. cit., p. 203.

[nota 23] E. MICELLI, op. cit., p. 28.

[nota 24] E’ noto che la giurisprudenza amministrativa, pur non esistendo nella legislazione vigente limiti temporali alle previsioni di edificazione privata, è costante nel ritenere che rientri nella discrezionalità del comune, in fase di revisione del Prg o di sua variante, retrocedere ad agricole aree precedentemente edificabili (o prevederne comunque una diversa destinazione d’uso), sempre che vi sia adeguata motivazione circa le diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni predisposte con la nuova manovra urbanistica. Ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 3 luglio 2000, n. 3646; Cons. Stato Sez. IV, 13 maggio 1998, n. 814. La questione si è posta spesso in comuni di grandi dimensioni (es. Roma) ove il sovradimensionamento dei Prg redatto in anni precedenti, rimasto inattuato, ha spinto le amministrazioni a rivedere il fabbisogno abitativo ed a prevedere un diversa espansione edilizia a favore della conservazione di aree verdi. Ragioni politiche (e non vincoli giuridici) per evitare il conflitto con la proprietà, possono prevedere l’adozione di misure compensative riconoscendo la facoltà del trasferimento delle volumetrie in altre aree del Prg, a fronte della cessione del bene immobile. Vedi la variante al Prg denominata “Piano delle certezze” del Comune di Roma su cui L. CASINI, Perequazioni e compensazioni nel nuovo piano regolatore generale di Roma, in Governo e mercato dei diritti edificatori, 2009, p. 159.

[nota 25] Ecco perché si ritiene che l’operazione della classificazione dei suoli va svolta con particolare attenzione da parte dell’amministrazione determinando l’edificabilità delle aree effettivamente necessarie alla manovra urbanistica, riservandosi in sede di successiva determinazione di piano l’inclusione di altre aree edificabili. In questo sta la differenza con il vecchio Prg ove spesso, a fini di consenso, si largheggiava nel calcolo del fabbisogno abitativo sovradimensionando il contenuto dei piani urbanistici. L’impressione è che attraverso il metodo perequativo generalizzato ciò non sia più permesso poiché – per i motivi già esposti nel testo – diviene difficile mutare in peius la destinazione d’uso delle aree edificabili con successivi provvedimenti di pianificazione, senza incorrere in censure del giudice amministrativo circa l’affidamento qualificato delle pretese del privato. In questo senso, nei piani strutturali di alcune regioni (cap. II) si prevede che questi classifichino le aree in urbanizzate, urbanizzabili e non urbanizzabili.

[nota 26] E. BOSCOLO, «Perequazioni…», p. 123.

[nota 27] Il comune interessato è quello di Schio (Vicenza).

[nota 28] E’ questo uno dei motivi per i quali allo studio del diritto urbanistico va affiancato continuamente l’esame della giurisprudenza che in molti casi meglio di altre dissertazioni permettono ai discenti universitari di cogliere appieno il rapporto tra norme e tecniche di pianificazione. Cosa che purtroppo non sempre avviene nei corsi d’insegnamento universitario.

[nota 29] Così A. POLICE, Governo e mercato dei diritti edificatori, in AA.VV., Governo e mercato dei diritti edificatoricit., p. 30.

[nota 30] Il vecchio diritto privato prima del titolo V della Costituzione.

[nota 31] P.L. PORTALURI, Le disuguaglianze sostenibili nell’urbanistica, in AA.VV., Le disuguaglianze sostenibili nei sistemi autonomistici multilivello, Torino, 2006, p. 73 e ss., che menziona, tra quelli, la dignità abitativa, il decoro architettonico ecc.

[nota 32] Corte cost., 19 dicembre 2003, n. 359, in Giur. cost., 2003, p. 3722 e ss., con nota di U. RESCIGNO, «La Corte scambia i principi fondamentali della materia per principi fondamentali dell’oggetto».

[nota 33] Cfr. Corte cost., sentenza n. 391/1989, nonché ID., sentenze n. 379/1994 e 164/2000. Ancora più esplicitamente la Corte precisa che «per quanto attiene alla normativa conformativa del contenuto dei diritti di proprietà allo scopo di assicurarne la funzione sociale la riserva di legge stabilita dall’art. 42 Cost. può trovare attuazione anche in leggi regionali, nell’ambito, s’intende, delle materie indicate dal 117 Cost.» (sent. n. 391/1989).

[nota 34] Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 190/2001. Sul punto occorre riportare quanto sostenuto da autorevole dottrina (P. STELLA RICHTER, Principi del diritto urbanistico, Milano, 2006, p. 49 e ss.) secondo la quale «qualunque intervento della pubblica amministrazione che non si risolva nell’ambito interno della sua organizzazione, non può non incidere nella sfera giuridica degli amministrati e quindi sulle relative situazioni giuridiche soggettive». E questo appare palese nella pianificazione urbanistica. Dunque, prosegue l’autore, ogni disciplina regionale è potenzialmente idonea a incidere nella sfera degli amministrati, con la produzione di effetti, che di regola rilevano anche nei rapporti intersoggettivi. Il problema del limite del diritto privato alla potestà regionale non può essere risolto, allora, con la semplicistica affermazione che la legge regionale non possa invadere la materia del diritto privato. La distinzione tra diritto privato e diritto che disciplina l’attività amministrativa della pubblica amministrazione va pertanto ricercata non nell’oggetto, ma nella struttura della norma. In tal senso, sono proprie del diritto privato le regole di valutazione dei fatti, e del diritto amministrativo le regole invece dell’attività della pubblica amministrazione. Ne consegue che, nel primo caso, la struttura della norma si articola nel rapporto tra norma e fatto proprio delle norme di relazione, nel senso che la fattispecie descrive un fatto al quale si ricollegano gli effetti voluti. Questi riguardano i rapporti tra i soggetti fissandone diritti e obblighi. Nel secondo caso, invece, l’articolazione riguarda uno schema più articolato costituito dal rapporto tra la norma, il potere, il fatto e, dalla norma di disciplina dell’esercizio del potere, consegue la disciplina del rapporto. In breve, quindi, nell’ambito del limite dell’ordinamento civile, per diritto privato della proprietà deve intendersi l’insieme delle norme di diretta applicazione (o valutazione) dei fatti attributive della proprietà o delle facoltà in essa ricomprese. Tale limite gioca quindi a favore dell’unità dell’ordinamento e della garanzia del principio di uguaglianza, al fine di evitare tra regione e regione tanti schemi proprietari. E questo accade quando la legge regola direttamente e in via esclusiva tali diritti. Ma nella materia urbanistica di per sé discriminatoria tra aree, è la disciplina amministrativa di conformazione dei suoli che regola la disciplina dei rapporti.

[nota 35] Sul punto A. MALTONI, Fondamento e limiti degli strumenti perequativi alla luce della giurisprudenza amministrativa, dattiloscritto, p. 2 e ss.

[nota 36] Corte costituzionale, sentenza n. 121/2010.

[nota 37] P. URBANI, «Ancora sui principi perequativi e sulle modalità di attuazione dei piani urbanistici», cit., p. 513.

Fonti:

https://elibrary.fondazionenotariato.it/articolo.asp?art=34/3401&mn=3

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